Negli ultimi giorni la città di Torino è tornata a fare i conti con una questione che da decenni resta aperta: la parabola dell’oggi 83enne Giorgio Maria Molino, proprietario di un impero immobiliare costituito da oltre 1.400 unità immobiliari, che si conclude, almeno penalmente, con un patteggiamento di tre anni ai domiciliari e il versamento di circa 7 milioni di euro per evasione fiscale dovuti a fronte di un introito di 42 milioni di euro da canoni di locazione percepiti.

Questo esito giudiziario non può essere letto come una semplice vicenda personale, né come una conclusione isolata: rappresenta piuttosto la punta dell’iceberg di un sistema abitativo profondamente radicato nella città, che intreccia speculazione, disagio sociale e complicità istituzionali.

Per decenni, il gruppo Molino ha affittato soffitte umide, cantine anguste, sottotetti inabitabili a persone che avevano poche alternative: molti di questi inquilini infatti erano migranti in condizioni di estrema fragilità. Le indagini hanno ricostruito quello che molti di noi sapevano già e cioè che buona parte di questi affitti erano in nero, in una rete opaca di società e associazioni che permettevano al “ras delle soffitte” di nascondere al fisco ricavi enormi.

Ma non è tutto. Emerge infatti la contraddizione di case in condizioni pericolanti, con infissi cadenti, cavi elettrici esposti, controsoffitti instabili, che di fatto venivano affittate con contratti regolari. Questo paradosso racconta una realtà fatta da un lato da una regolarità formale, dall’altro dall’assenza di condizioni minime di vivibilità, abitazioni fatiscenti che non sono un diritto reale ma un ricatto fatto di precarietà.

E non è un segreto che la galassia Molino abbia avuto rapporti stretti (diretti o indiretti) con le istituzioni torinesi. Alcuni esempi sono gli immobili forniti al Comune per accogliere famiglie gravemente vulnerabili o la svendita di immobili comunali come il complesso tra via XI Febbraio, via Fiochetto e via Bazzi, in un rapporto che oscilla tra pseudo-assistenza sociale e speculazione edilizia.

Il fatto che un’attività immobiliare così massiccia e controversa potesse prosperare per decenni implica che non si sia trattato solo di un affarista disonesto, ma di un attore integrato nel tessuto urbano, con connessioni, protezioni e mutui interessi.

Il patteggiamento di Molino, sebbene dica “pagherai qualcosa, ma non finisci in carcere”, non risponde affatto al nodo politico: non affronta la natura strutturale del problema che ha plasmato interi quartieri e il destino abitativo di migliaia di persone. Un’indagine fiscale e una multa penale non bastano se non si cambiano le logiche su cui si fonda il mercato immobiliare torinese.

Il palazzinaro Molino ha versato una parte delle somme evase, ma rimane il fatto che per decenni ha accumulato rendite su spazi degradati, ricattando chi aveva bisogno di un tetto. Questo patteggiamento non può essere interpretato come giustizia piena se non è accompagnato da politiche concrete di riappropriazione del patrimonio edilizio speculativo.

  1. Espropriazione e riconversione: gli immobili vuoti ed inutilizzati, esclusivamente funzionali a pratiche speculative, devono essere espropriati per essere riconvertiti in abitazioni pubbliche per chi è in stato di necessità. Non è accettabile che decine di migliaia di immobili inutilizzati gravino per profitto sulla vita dei più vulnerabili.
  2. Controllo trasparente degli affitti: è necessario rafforzare i meccanismi di controllo su tutti gli immobili cittadini, ma soprattutto su quelli micro che storicamente costituiscono i luoghi di sfruttamento. Contratti, condizione degli alloggi, registrazioni e pagamenti devono essere tracciabili e verificabili per tutelare gli inquilini.
  3. Partecipazione degli inquilini: chi abita queste case deve avere voce: assemblee di quartiere, rappresentanza nei processi decisionali, collaborazioni con organizzazioni abitanti che includa chi costruisce ogni giorno la comunità nei nostri quartieri.
  4. Risorse pubbliche per il diritto all’abitare: il Comune di Torino e la Regione Piemonte devono smetterla di dare risposte palliative e di facciata ed invece investire risorse, fondi europei, programmi di edilizia sociale, meccanismi contro la speculazione e lo sfruttamento abitativo, porre un limite al dilagare di affitti brevi e turistici dando una vera risposta al bisogno abitativo.

Questa vicenda non può restare un caso isolato di rilevanza strettamente penale. Deve diventare un punto di svolta che faccia prendere coscienza delle mille criticità di un sistema che, non solo nell’illegalità, specula sulla fragilità abitativa. Se finalmente dopo anni di collusioni e sfruttamento è stato colpito un simbolo dello sfruttamento immobiliare, la giustizia sociale deve proseguire su un altro piano: quello delle politiche abitative.

Difendere il diritto all’abitare significa non solo denunciare l’illegalità, ma soprattutto costruire un’alternativa urbana in cui la casa non sia più merce per pochi speculatori, ma un diritto garantito a tuttə.